Intervista ad Arturo Tamayo

21 luglio 2014

Come è nato il progetto del Laboratorio di Musica contemporanea a Ticino Musica?

La prima idea prevedeva di fare soltanto un corso di direzione d’orchestra: avevo proposto il progetto a Gabor Meszaros ed avevamo scelto il repertorio su cui lavorare, che è quello tuttora in programma. Successivamente Gabor e Mathias Steinauer mi hanno entrambi contattato proponendomi un laboratorio che unisse direzione e composizione ed io naturalmente mi sono trovato d’accordo perché penso che sia un’idea molto produttiva, originale e interessante.

Qual è secondo lei, all’interno del percorso formativo di uno studente che vuole intraprendere la professione, l’importanza della conoscenza teorica e pratica della musica contemporanea?

Secondo me la conoscenza della musica contemporanea è molto più importante di quanto tanti giovani oggi pensino e credano. Nella mia lunga esperienza di insegnante ho trovato molto spesso persone che dicevano di non essere interessate al repertorio contemporaneo, per poi finire a lavorare in ensemble di musica contemporanea. L’estrema specializzazione è una limitazione, pertanto è negativa e distruttiva per la carriera di ognuno; non si può decidere di interessarsi a un solo periodo storico rifiutando di coltivare gli altri. Un musicista di oggi (e sottolineo oggi) deve conoscere tutte le possibilità del suo strumento e un repertorio il più ampio possibile. Adesso sappiamo che è di moda il barocco e vi è quasi un sovraccarico, tanto che arriverà un momento in cui la gente non si interesserà più e cercherà altre cose, dunque un musicista che non sa fare che questo repertorio si pone dei grossi limiti.

La formazione attuale del musicista tende ormai a dare una visione generale del repertorio musicale, quindi anche del repertorio contemporaneo.

Quindi qual è un suo consiglio da dare a un giovane musicista che vuole intraprendere la professione?

Non fermarsi, non chiudersi nelle proprie idee, avere la mente aperta, lo spirito di avventura e una preparazione tecnica la più ampia possibile, la conoscenza del maggior numero di tecniche/effetti. Non si può arrivare a fare una produzione in orchestra come aggiunto e non saper fare certi effetti contemporanei, quello deve essere il repertorio che tutti conoscono; non esclusivamente, non dico che debbano fare solo musica contemporanea, devono fare ogni tipo di musica con la stessa convinzione. Allora il mio consiglio è di non chiudersi, non fermarsi, aprire la mente a nuove possibilità, nuovi terreni, nuove idee.

Nella sua professione di direttore, quali sono le differenze di approccio alla lavorazione di un brano contemporaneo il cui autore sia ancora vivente/presente alle prove o non ci sia più e nei casi siano state fatte altre esecuzioni del pezzo o meno?

L’unica differenza riguarda le decisioni artistiche. Se nel lavorare un pezzo trovo qualche problema – che può essere una nota sbagliata – e il compositore è presente, gli chiedo indicazioni e lui sicuramente si ricorderà o scoprirà qual è. Una volta ho chiesto a Luciano Berio se una nota era giusta, lui mi ha dato una pacca sulla spalla dicendomi: “Caro, ho scritto tanta musica, non mi ricordo”. Ci sono altri che si angosciano, che ricercano nei primi abbozzi. Ad ogni modo, quando abbiamo il compositore presente ovviamente si può parlare con lui per trovare una soluzione e questo è molto importante. Quando il compositore non c’è (e questo mi è successo tante volte) possiamo avere tanti errori nella partitura e non sapere come comportarci. Mi è capitato ad esempio di avere pezzi in cui contrabbassi e violoncelli andavano in ottava o all’unisono e a un certo momento i violoncelli suonavano do diesis e i contrabbassi re, e quello suonava come un errore. In casi del genere si deve prendere una decisione su qual è la nota giusta: alcune volte dall’analisi si sa, altre volte no e siamo noi a dover prendere la decisione artistica. Quando si fa un pezzo fatto già tante volte, anche contemporaneo, c’è una tradizione dell’esecuzione, uno sa più o meno cosa si fa di solito e ci si può appoggiare a questa. La cosa più importante rimane la possibiità di confrontarsi con il compositore.

Come cambia invece il rapporto con un’orchestra se deve dirigere un brano contemporaneo o un brano classico?

Per me non ci deve essere nessuna differenza. Noi siamo professionisti, che si suoni Mozart o Boulez, non c’entra niente, un pezzo si deve suonare con la più grande perfezione possibile. Ci sono pezzi del repertorio tradizionale che sono di una difficoltà enorme per l’orchestra e richiedono di essere lavorati al massimo, fino in fondo, fino a che tutto sia in ordine. Con il repertorio contemporaneo è la stessa cosa. Purtroppo tante volte i direttori prendono un brano contemporaneo come un obbligo, fanno una lettura da capo a fondo e vanno al concerto nonostante il pezzo non stia ancora in piedi. Ne risulta una cattiva esecuzione e questo è molto negativo. Stockhausen una volta mi disse: “Preferisco nessuna esecuzione a una cattiva esecuzione”, perché abbiamo tanti esempi di pezzi che non sono stati suonati per anni a causa di una prima esecuzione molto scadente. Un esempio è “Apparitions” di Ligeti, uno dei suoi migliori pezzi, che il giorno della prima fece scandalo poiché suonato male. Abbiamo l’obbligo di suonare tutto allo stesso livello, sia Mozart, sia Stockhausen, Brahms, Boulez, non importa chi. I pezzi del repertorio tradizionale sono conosciuti, hanno già un percorso; se io dirigo Brahms e il risultato non è soddisfacente, sappiamo non è colpa di Brahms, forse è il direttore che non ha lavorato il pezzo fino in fondo. Se io dirigo un pezzo nuovo, la gente non ha un punto di riferimento, un termine di paragone, allora se non si ha una buona esecuzione la gente può pensare che il pezzo sia scritto male. Ho avuto un’esperienza significativa, in questo senso, con Hans Werner Henze. Una volta abbiamo fatto un pezzo appassionatissimo, di cui mi feci inviare un cd della prima esecuzione, da cui tuttavia era difficile riconoscere il brano stesso. Io lo eseguii poi con l’orchestra nazionale di Spagna con Henze presente; dopo il concerto Henze venne da me e mi disse: “è veramente un bel pezzo!”, perché l’aveva sentito bene per la prima volta, per la prima volta suonato con convinzione, l’avevamo lavorato veramente in fondo: le linee e le strutture formali si sentivano molto bene, veniva fuori tutto quel mondo interiore che lui aveva scritto. Questo per me è molto importante in ogni repertorio che si fa.